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Dove finisce la realtà e inizia l’illusione?

Federico Cautero, scenografo, CEO e direttore creativo di 4DODO, ci ha aperto le porte del suo mondo. Un mondo fatto di scenografia reale e scenografia virtuale, dove le regole di oggi hanno ribaltato le regole di ieri, dove la realtà è solo un’illusione e l’emozione è l’unica cosa che resta.

Federico, nella tua esperienza di docente, come hai avvicinato i tuoi studenti non tanto alla materia in sé, quanto all’approccio, alla curiosità, all’interesse verso ciò che stavi insegnando?

Innanzitutto non puoi insegnare qualcosa se non domini l’argomento; devi dominarlo, altrimenti è difficile trasferire quello che stai raccontando.

Io ho sempre cercato di immaginarmi le necessità e le domande degli studenti che avevo di fronte. Mi sono sempre messo nei panni degli altri, partendo non da quello che sapevo, ma da quello che gli altri percepivano rispetto alla materia che insegnavo.

Per insegnare ti devi mettere nelle condizioni di ascolto delle persone che hai di fronte, devi cercare di capire le loro esigenze e trovare il modo di farti fare delle domande a cui poi devi rispondere; è un lavoro di psicologia più che di conoscenza. Non puoi avere un metodo unico perché ogni studente o ascoltatore parte da un punto diverso.

Insegnando, impari. Trasferire qualcosa ti costringe a riordinare le idee e, in questo processo, acquisisci competenze nuove, guardando le cose da un punto di vista sempre diverso dal tuo.

Essendo molto vicino alla scenografia virtuale, dell’interattività immersiva e coinvolgente, cosa vedi nei social del futuro, nel metaverso? 

Questo è un argomento vecchio tanto quanto quello di realtà virtuale. I visori esistono dagli anni ‘70-’80, ovviamente con altre tecnologie, più complicate da utilizzare e meno sofisticate rispetto alle attuali; ma il concetto alla base è un concetto che c’è da tempo.

Evidentemente c’è la necessità di costruire una realtà alternativa, e questo mi rende combattuto. Ormai oggi non stiamo più vivendo solo la vita reale; con il Covid questa necessità si è fatta ancora più forte… La necessità di sentirci vivi e di poter comunicare senza essere fisicamente vicini. Gli effetti? Li vedremo tra qualche anno.

Quest’attenzione alla seconda realtà, quella virtuale, è positiva se la intendiamo e sfruttiamo come strumento e non come fine; il fine è e deve sempre essere l’uomo. Se, invece, intendiamo la realtà virtuale come fine, lasciami dire che è davvero una misera fine rispetto a quello che siamo e che siamo stati.

Parlando invece di scenografia reale, come – e se – è cambiato il modo di fare scenografia negli ultimi 30 anni?

Gli strumenti, le situazioni, le esigenze tecniche sono differenti, così come i tempi di produzione. Queste sono le sostanziali differenze.

Ma prima di tutto dobbiamo capire cosa vuol dire costruire una scenografia. La scenografia – che sia per il teatro, per un ambiente commerciale, per la tv, ecc. – deve descrivere un’azione, deve dare un’emozione enfatizzando un racconto. È necessario che questo racconto esista già; può trattarsi di una musica come di un testo, ma deve esistere e parlare di qualcosa. Lo scopo della scenografia è dare la chiave di lettura per decriptare tale racconto.

La scenografia è serva del racconto; senza racconto, non c’è scenografia, ma solo uno o più oggetti. La sua funzione è illudere l’occhio, far vedere anche qualcosa che non c’è, per sostenere il racconto alla base di tutto.

Il modo in cui do concretezza all’illusione non importa; ciò che cambia è il sistema di costruzione del contenuto. Cambiando lo strumento, cambiano tutte le regole. La scenografia digitale di oggi ha dei paradigmi diversi rispetto al passato.

Oggi le regole del mondo reale gestiscono quello virtuale, e il virtuale ci rimanda indietro le informazioni, creando l’illusione, la continuità.

I sistemi di oggi ci consentono di gestire la scenografia come fosse reale… Posso far girare una struttura senza avere un girevole. Virtualizzare l’esperienza può essere davvero interessante!

Nel tuo intervento del 19 marzo, sarai la nostra musa dell’arte. Che significato dai al termine “arte”? Ti definisci un artista?

Non ho mai pensato di essere un artista. Non perché ritengo di non avere una forma mentale che possa essere definita creativa o artistica; non perché non abbia vissuto l’arte. Anzi, l’ho vissuta fin da piccolo e, per forza di cose, ho dovuto accettare il fatto di vivere in un ambiente in cui molto spesso si parlasse di arte. 

Purtroppo la nostra società non riconosce sempre il valore dell’arte. Non intendo il valore artistico, il concetto dell’artista come persona estemporanea, con le sue idee e visioni, un po’ fuori dalle righe. Non questo. Sto parlando della professione dell’artista, che è esattamente come il meccanico o il falegname; è un vero mestiere, con una propria etica. L’etica dell’artista è quella di raccontare le emozioni. Ma, per poter essere considerato un artista, c’è bisogno di professionalità e di tutto il necessario affinché il risultato sia di qualità. 

Gli altri ti giudicano per quello che fai, non per quello che dici di essere; sono gli altri quindi a decidere se sei un artista o no. Io non sono un artista, al massimo posso essere un rappresentante di una piccola categoria dell’arte, perché il mio mestiere ha a che fare con l’arte. Ma io sono a tutti gli effetti un artigiano, oggi un artigiano digitale. 

Il mio atteggiamento rispetto all’arte è quello di una professione. Sì, per me è un lavoro essere creativo, trovare idee per risolvere un problema, trovare delle soluzioni concrete. Tutto questo porta via tempo ed energie… Senza dimenticare che, prima di tutto, ovviamente è anche una passione.

Federico, ringraziandoti per il tuo tempo, ti lasciamo tornare alla tua “professione artistica”… Aspettando di ascoltarti sul palco del teatro Giovanni da Udine il 19 marzo. A presto!

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